Spieghiamoci meglio con un esempio. Il meraviglioso stupore di un bel tramonto – o quello che volete voi: ci interessa qui puntare l’attenzione su quell’attimo, sentito in modo prelinguistico – è qualcosa che viene tradotto malamente dalla mente parlante, no?
Nel momento stesso in cui ci accorgiamo della bellezza dell’esperienza – come dire – ce la stiamo in effetti raccontando. Perché compare l’io della consapevolezza ordinaria, quello che chiacchiera continuamente nella nostra mente, e l’esperienza stessa, nella sua più intima essenza, è bella che andata! Stiamo dicendo che un conto è l’attimo del vissuto in sé, e un altro è il raccontare a noi stessi di quell’attimo. Che in quanto raccontato, l’attimo in sé, se n’è proprio andato!
Di più, se non era l’io linguistico, l’io ordinario, quella percezione, seppure fugace, chi l’ha avvertita?
Distinzioni troppo sottili?
In fondo stiamo tentando di render conto di ciò che, ad esempio, la Psicosintesi chiama funzioni. Prendiamo l’immaginazione o l’intuizione, tanto per fissare le idee. In casi come questi, ci riferiamo di sicuro a qualcosa che percepiamo a monte della stessa formulazione dell’ io chiacchierante3. L’atto intuitivo o immaginativo deve necessariamente preesistere alla descrizione linguistica che poi ne facciamo.
Il nostro abbozzo di idea – perché solo di questo si tratta – è che queste esperienze prelinguistiche siano legate in qualche modo alla famosa presenza o all’equivalente costruzione del testimone di gurdjieffiana memoria. Non foss’altro per l’evidenza – sottilissima certo – che in quei fugaci attimi c’è pur sempre un qualcosa che esperisce quell’attimo.
Ma, ha un qualche senso tutto ciò? O stiamo solo costruendo vuoti costrutti linguistici?
1 Ogni riferimento a filosofi famosi, tipo Wittgenstein, è puramente casuale! : – )
2 Inevitabile non ricordare, a questo proposito, Jiddu Krishnamurti.
3 idem