Entri in diretto contatto con la SIAE, per un piccolo concerto in piazza. Comprendi che cosa fanno. Te ne rendi conto in prima persona, non per sentito dire. Vedi l’aspetto formale, proteggere l’autore e l’editore. Approfondisci un poco. Sai qualcosa di licenza Creative Commons e della tematica sulla proprietà intellettuale, ma lasci da parte questo complesso e impegnativo argomento. Ritorni al vero scopo per cui probabilmente è nata una istituzione come la SIAE. Proteggere coloro che investono per produrre della musica, in analogia a quanto succede per la carta stampata. Attraverso una tassazione sulla fruizione di musica. Controllo.

Ma se guardiamo oggi la realtà dei fatti,  gli editori storici sono di fatto scavalcati  dalla rete e dalla digitalizzazione pervasiva di tutto ciò che ormai viene prodotto dall’umano. Da chi? Ma dalle pochissime entità private, gigantesche, a scala globale, che definiscono, di fatto, gli stessi servizi utilizzabili “gratuitamente”, nelle modalità di accesso e – arriviamo a dire – nei contenuti effettivamete disponibili per noi utenti. Gate keeper, vengono chiamati nello slang anglosassone.  Che quindi hanno l’agio di definire veri e propri modelli di business, inediti, attraverso le proprie realtà operative e operanti.

Stiamo parlando, per intenderci, di aziende quali Google, Amazon, Facebook, Apple, tanto per fissare le idee.

Quindi, oltre a chiederci, qual è il ruolo e l’effettivo servizio che una organizzazione come SIAE può offrire al cittadino, oggi, varrebbe la pena chiedersi anche qual è la relazione che si può instaurare tra una normativa nazionale, che deve essere adottata sul proprio territorio, e queste realtà transnazionali, che, implicitamente, ci stanno definendo sempre più con i loro insindacabili comportamenti. O almeno renderci conto, almeno un po’, di quanto stia accadendo molto velocemente là fuori.

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