Ritorno in aereo da una normale giornata lavorativa. Siamo quassù, a ottomila metri di altezza. Tempo sereno. Volo tranquillo. È sera. Non durerà più di un’ora. L’illuminazione interna della cabina contrasta con gli oblò buio nero. Un nero intervallato solo da qualche costellazione luminosa, quella polvere di luci delle città, che appare ogni qualvolta il velivolo compie una dolce quanto inavvertita virata. Il ronzio costante e tranquillizzante dei motori ci culla tutti: chi assorto nei propri pensieri, chi sonnecchiante o intento a leggere. Insieme ad un leggero e confuso vociare di qualche sommessa conversazione sparsa qua e là nella cabina dell’aereo.
L’attenzione scivola sul respiro. Il mio stesso respiro. Sento l’aria che entra e che esce, ritmica, dalle narici, per proseguire nei polmoni, e per poi tornare all’ambiente circostante. Già. Sfrecciamo nel cielo rarefatto. Siamo tutti quanti in questa specie di autobus con le ali. Dentro una bolla d’aria pressurizzata, che ci permette, quassù, una respirazione del tutto normale. Tanto da non accorgerci che, tutti noi, seduti nei nostri seggiolini, più o meno tranquilli, siamo proprio come una bolla di esistenza viaggiante.
E, all’improvviso, un flash: tutti noi che respiriamo la stessa aria…
Un vero e proprio insight. Quello di quando cogli veramente il fatto in sé. Non il solito pensiero che riflette su qualcosa. Ma proprio un comprendere puro, essenziale, avvertito con tutto me stesso, con tutta la mia persona, anche col corpo. Poi la mente, naturalmente, produce analisi e si immerge in particolari e dettagli. L’ossigeno che entra, che si colora della mia anidride carbonica, quella prodotta dal mio corpo, personale, in un certo senso, e che metto in comune con gli altri in questa cellula di esistenza. E così per tutte le persone che vedo di fianco e davanti a me o che sento dietro di me.
Respiriamo tutti dalla stessa bolla d’aria, in un intreccio reciproco di fluidi sottilissimi. Siamo tutti insieme. Qui, in questo posto un po’ particolare, mi sento più insieme che in altre circostanze. Anche forse per quell’innegabile senso di precarietà che ci accomuna tutti, almeno fin quando non siamo ritornati ad essere di nuovo normali bipedi deambulanti a contatto fisico con la superficie del nostro beneamato pianeta.
E allora – mi chiedo – dove finisco io? Dove termina il me? Qual è il confine, se in questa cellula di umanità viaggiante mi accorgo, per la prima volta, di questa inestricabile e sostanziale relazione che c’è con l’altro? Attraverso la condivisione di questo mezzo: l’aria che tutti respiriamo, che tutti ci contiene e che ci tiene in vita. Attraverso questo scambio fisico e reciproco di particelle, infinitesimali, che in qualche modo sono state nostre. Per un breve intervallo di tempo, certo, il tempo di un respiro, ma così essenziale per ognuno di noi! Un’immagine di questo mescolarsi e scambiarsi di parti vitali tra sconosciuti e ignari viaggiatori volanti. Una percezione così “intima”, cinestesica quasi, che comporta l’impossibilità di definire una superficie o un confine che possa chiaramente delimitarci, separare il me dal tu, il tu dal me. E che fa emergere la consapevolezza della comune piattaforma che tutti ci sostiene, ma che diamo, da sempre, per scontata. Invisibile.
Quella sera – anche se solo per qualche istante – non sono proprio riuscito a trovare alcun limite alla mia identità. Limite nel quale potermi sentire confinato o isolato dal resto del mondo, natura compresa. E da quella sera, quell’esperienza riaffiora alla mia mente sempre più spesso, in tante e diverse circostanze della vita.
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