«Fare esperienza». Che vuol dire? E, di più, ha senso parlarne? L’esperienza1, di per sé, è un fatto soggettivo, la cui valenza, il cui senso non può che essere generato dal soggetto stesso che esperisce. Tautologia? Ma, così è. Intrinsecamente. Un conto è l’esperienza soggettiva e un altro è il desiderio di parlarne. Come dire che il dominio del discorso è distinto dal dominio esperienziale. Stiamo trattando di due domini incommensurabili. E allora, si può descrivere a parole, portare, cioè, a livello del linguaggio l’esperienza, diciamo, di mangiare una mela?

Si e no. Ne possiamo senz’altro parlare, visto che stiamo considerando un fatto così comune, alla portata di tutti. Chi non ha mai assaggiato una mela in vita sua… Ma la mia specifica esperienza è di per sé intraducibile. Non la si può traslare linguisticamente. Non c’è alcun modo per trasferire l’esperienza, così come l’ho fatta io, da me a te. Eccetto che permettere anche a te di fare esperienza di questa mela, assaggiandola. Non c’è altro modo, che quello di ripetere quanto ho fatto io. E lasciare che l’esperienza ti accada.

Poi ne potremo discutere. Descrivere ciò che si è provato. Anche se sarà sempre e solo un gioco di rievocazioni. Sollecitazioni verbali, con lo scopo di far emergere nell’altro qualcosa di soggettivo. Di solo mio. O tuo. Richiamare alla memoria. Riecheggiare. Per far sì che lui risuoni in modo analogo a quanto intendo.

L’esperienza, in quanto tale, coinvolge i sensi, il corpo fisico nella sua concretezza. Si tratta sempre di un’interazione stretta, fisica, senso-motoria. Che implica una fusione.
Anche nel vedere qualcosa, c’è un riconoscimento di una forma e quindi il richiamo di una qualche struttura conosciuta. Già presente in noi. E di qui la giustificazione della parola utilizzata: una fusione, tra ciò che mi appare e ciò che riporto dalla memoria.
Anche se, per completare il tutto, dovremo avvertire anche quella sensazione, spesso molto sottile, che è connessa all’emozione che tale esperienza suscita…

L’esperienza si può comunque fare quando siamo coinvolti nella nostra totalità. Più o meno attenti o presenti, ma essa, in sé stessa, è sempre olistica. Io, me, attraverso il mio corpo fisico e le sue funzionalità, mente compresa, insieme all’oggetto esperito. E insieme all’emozione corrispondente. Nell’esperienza, forse solo attraverso di  essa, può sorgere la coscienza di noi stessi: rispecchiamento.  Autoconoscenza?  Autocoscienza?

 


Lo stupore di un bambino, che tenta invano di capacitarsi del daltonismo del proprio babbo, può essere stato uno degli elementi scatenanti per l’origine profonda e smarrita di tante domande, tuttora persistenti…

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Fare esperienza
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