Leggo spesso che passeggiare nei boschi, sentire l’aria che carezza la pelle, stare nella natura è un modo per calmarsi, ricaricarsi, per centrarsi, insomma. Tramonti a parte, che sono in genere anche per me, soggettivamente, una vera e propria meraviglia, devo dire che il mio modo per trovare un po’ il mio centro, per ritornare a me stesso, nel qui e ora, è senz’altro quello di accarezzare, con grande presenza, Ivan e Tobia. I miei due gatti. Tobia è quasi un cane, nel suo comportamento. Mi cerca. Desidera il mio contatto. Si vede che gode delle mie carezze attente. Ivan, invece, è irruento, e, quando vuole lui, pretende le mie attenzioni, con forza, con violenza, quasi. Anche se – in certi momenti – si capisce che gradisce, anche lui, la carezza sottile…
Nella carezza sottile, attenta e intensa, quasi estatica, mi ritrovo. Mi centro. Riesco proprio ad esserci, in quell’azione. Rispettando profondamente la gattità che sto toccando, naturalmente. Nell’accarezzare i miei gatti, nel lisciare con leggerezza il loro pelo morbido, con attenzione profonda all’azione in sé e nel riconoscerne il loro piacere, che è anche il mio… accarezzo me stesso. Nella mia parte più profonda. Attraverso loro. Diventando, per un attimo, in quel gesto, carezza io stesso.1
1 J.Krishnamurti, identità conosciuto-conoscente.
Carezze e gattità