Oggi ho compreso una cosa.

Che aleggiava da tempo nei miei pensieri, ma che non riusciva a sedimentarsi in un significato fermo, vero, compreso, valido per me.
Sai, quando ne ascolti le parole, ma, chissà per quale strano motivo, non ne riesci poi a coglierne il senso. Un senso concreto, specifico, chiaro, solido… compiuto. Una comprensione, appunto, che da qualche tempo ho cominciato a chiamare con la parola acquisizione.

Il pensiero, svolazzante come una farfalla, del quale non riuscivo a definirne i contorni, era il seguente.

“Non dare il giusto nome alle cose. Non dare il vero nome a ciò che stai facendo.”

Una concordanza di senso compiuto tra forma e contenuto. Una coerenza di sostanza, in verità. Quando, cioè, la forma effettivamente rappresenta il contenuto, per cui quella forma esiste … e non è altro da sé.
Sembra un gioco di parole, ma è tutto molto semplice, se riferito a esempi quotidiani.

Ragionavo stamani, appunto, sul disagio che provavo nel pagare una multa per eccesso di velocità, mentre, proprio, la sera precedente, tra amici, si era discusso di quanto stranamente le narrazioni, raccontate dai più, dai giornali e dalle tv, mi apparissero strane e distanti, aliene quasi … tutte, però associate a un sottile disagio, che avvertivo dentro di me.

Guarda caso, lo stesso disagio che provavo nel pensare alla recente contravvenzione…

Poi il chiarimento. Interno. Che mi appare.

Proviamo a esaminiamo le seguenti affermazioni.

Il vigile urbano controlla la velocità del veicolo per la tua sicurezza.
Il contante dev’essere limitato per minimizzare l’evasione fiscale.
La polizia c’è per proteggerci dal terrorista.
Lo straniero va accolto e aiutato.
Missione di pace in… località straniera. Quasi sempre situata in quello che un tempo veniva chiamato eufemisticamente terzo mondo.

Cos’è che sento che non va in queste affermazioni o titoli?
Semplice. Non corrispondono alle vere intenzioni di chi le propugna.

Il vigile eleva multe per rimpinguare le finanze del comune.
Concentrare in rete tutti i movimenti di denaro, anche quelli più piccoli, risponde ad un’esigenza di controllare tutti i flussi finanziari più minuti. O comunque non al problema dell’evasione fiscale. Una controprova? Si pensi al fenomeno dell’elusione fiscale delle mega società transnazionali. Tutto legale, naturalmente.
La polizia potrebbe servire a controllare le masse.
Lo straniero potrebbe venire utilizzato, di fatto, per il business dell’ospitalità temporanea, ben diversa dalla vera accoglienza.
Infine, per la cosiddetta missione di pace, occorrerebbe, semplicemente, ricordarsi di esercitare, ogni tanto, il buon senso, ed esprimere un pensiero logico, o, almeno, ripristinare l’uso del dizionario di italiano.

Non mi interessa sostenere che quanto detto qui sia “la pura verità”.
È sufficiente identificare, percepire, sentire, che c’è un grande scollamento tra ciò che appare e ciò che, in realtà, è.
L’intenzione sottostante, appunto. Che, se ci sei, la senti. Senza alcun dubbio.

Sto parlando della falsità.
Quella cosa splendidamente illustrata in questa canzone di Giorgio Gaber, e che dà il titolo al post.

Ma non finisce, qui, purtroppo.
O per fortuna.
L’indagine sulla falsità, deve necessariamente proseguire anche al mio interno. Perché tutta quella falsità, che inizialmente vedo là fuori, in verità, mi appartiene.
Tutta.
È parte costitutiva di me … quel me che ho costruito da quando sono nato e col quale, purtroppo, mi sento ancora tanto identificato.

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Il tutto è falso
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