Dal vocabolario Treccani online, estraiamo i significati che qui ci interessano, sintetizzandoli.
Comunicazione: l’azione di trasmettere ad altri; rendere partecipe qualcuno di un contenuto mentale o spirituale, di uno stato d’animo.
Pubblicità: l’insieme di mezzi e modi per segnalare l’esistenza e far conoscere le caratteristiche di prodotti, servizi, prestazioni varie, predisponendo messaggi più idonei per il mercato indirizzato
Propaganda: azione che tenda a influire sull’opinione pubblica, orientandola verso determinati comportamenti collettivi e l’insieme dei mezzi con cui viene svolta. In effetti quest’ultimo termine può assumere una connotazione negativa, non presente nei primi due, riportata dalla Treccani come “complesso di notizie destituite di ogni fondamento, diffuse ad arte e per fini particolari”.
E sono esattamente i significati che intendiamo utilizzare in questo contesto.
Ebbene, ritornando alla domanda, è possibile definire almeno un confine tra questi tre termini? Quando accade l’uno e quando l’altro?
Il primo termine tende ad essere considerato puntuale, rivolto ad uno specifico individuo o platea, con un senso quasi oggettivo, indipendente quasi da un desiderio di far agire, mentre gli altri due tendono ad uno scopo ben preciso. Dichiarato o surrettizio che sia. Non vogliamo qui impegolarci con distinzioni linguistiche o tirare in ballo la filosofia del linguaggio, riconoscendo in fondo la performatività di ogni espressione linguistica – non ne saremo capaci – ma più semplicemente tentare di approfondire il senso di concetti, che forse oggi, nella nostra civiltà occidentale, consumistica e globalizzante, ricorrono così spesso nella vita quotidiana. E li viviamo in modo del tutto trasparente e inconsapevole.
Crediti: https://infobron.nl/Reclame-soorten
Senza peraltro voler toccare temi più delicati e critici a proposito di spin doctor et similia…
No. Qui si desidera cercare di capire dove termina la comunicazione e dove inizia, diciamo, la possibilità di una manipolazione da parte di chi emette il messaggio. Intendendone proprio l’accezione negativa: indurre qualcuno a comportamenti che altrimenti non avrebbe liberamente operato.
Indubbiamente rispondere a questa domando non è facile, perché ricadiamo nel campo dell’intenzionalità. Qualcosa di estremamente sottile, soggettivo, non verificabile e neanche confutabile.
Proviamo però a concretizzare almeno un po’. Facendo un primo esempio. La pubblicità. L’onnipresente pubblicità. Che si tratti di una rivista patinata, che a volte sembra essere più un catalogo di cose da comprare che altro, o che si tratti di carta stampata in genere, televisione o il web. Quest’ultimo con quei messaggi animati e intermittenti, così fastidiosi nella lettura di un testo sullo schermo. Per non dire di quei banner che per farli sparire bisogna fare una vera e propria caccia al tesoro!
La reclame. Quest’oggetto onnipresente e decisamente invadente che sembra essere la vera ragion d’essere del mezzo trasmissivo stesso… Ma si sa, come si diceva a metà dello scorso secolo, in Europa, nel boom del dopoguerra, “la pubblicità è l’anima del commercio”. E di qui la sua “naturalità”, no?
Altro caso. Il telegiornale, alla tv, è comunicazione? Tende a informare soltanto? A darci le notizie? A dirci cosa sta succedendo nel mondo? Se in un primo momento sembrerebbe proprio così, facciamo allora la seguente riflessione. La selezione delle informazioni, delle notizie appunto, è un’operazione intenzionale. Quando segnalo un fatto, per certo, sono costretto a scartarne altri mille. Ma faccio informazione, e mi trovo quindi nella posizione di dover necessariamente scegliere per il mio pubblico. Il mestiere di giornalista, televisivo o meno, infatti, parte proprio di qui, dalla selezione della notizia. Ma sorge allora un’ulteriore domanda. Com’è possibile che tutti i resoconti che sentiamo siano sostanzialmente gli stessi, così uniformemente sincronizzati, nei diversi canali di informazione, stampa, televisione, web? Di sicuro la cronaca nera ha sempre attirato di più di tutto il resto, ma in un mondo mutidimensionale e dalle molteplici fonti informative, quale è quello in cui viviamo, la standardizzazione temporizzata delle informazioni dovrebbe suonare un po’ arcana. Va il bianco? Tutti a parlare del bianco. Va il grigio? E via col grigio. E così via. Un effetto moda si potrebbe dire e di sicuro qualcosa del genere accade nei diversi strati sociali e in tutti i settori più diversi. Che si tratti di medicina o consulenza aziendale, ricerca scientifica o tecnologia, per non parlare dei mercati di consumo, una specie di “ordinamento del comportamento sociale” indubbiamente capita. Ma nel campo giornalistico, quest’effetto sembra farla da padrone. In modo a nostro parere eccessivo. Quasi che i giornalisti si riferiscano o alle stesse – e uniche – fonti di informazione o addirittura che se le passino tra loro, con un tempismo che ha dell’incredibile. Non una voce fuori dal coro. Non un commento effettivamente contrastante. No. E il senso di tragica monotonia, un po’ sospetta, resta.
Tutto qui. Sollevare qualche perplessità sulla necessità di approfondire la comunicazione nel villaggio globale in cui siamo, è per noi non solo necessaria, ma addirittura indispensabile. Visto che una qualsiasi persona dotata di una normale scolarità, e munita di un minimo di discernimento, ha oggi a disposizione una pletora di fonti diverse d’informazione in rete. E quindi non solo ha l’opportunità di aggiornarsi, vagliando la credibilità delle fonti, ma ha la responsabilità, e quindi il dovere, di tentare almeno di distinguere quando la comunicazione sconfina in pubblicità o peggio si trasforma addirittura in propaganda.
Questo sempre a nostro personale e naturalmente discutibile parere.