Titola così l’articolo di Sergio Luciano nel quotidiano Italia Oggi. E come sottotitolo:

Le dieci aziende più innovative del mondo sono Apple, seguita da Google, Microsoft, Amazon, Samsung, Tesla, Facebook, Ibm, Uber, Alibaba. Il vero comun denominatore dei magnifici dieci è quello di avere (relativamente) pochi dipendenti

Tutto ciò rimanda ad un problema di fondo, molto trascurato, ci sembra. Quello di una ridefinizione profonda e impellente del concetto stesso di lavoro, così com’è oggi concepito nella nostra società.

Non abbiamo la pretesa di fornire indicazioni o tracciare soluzioni in un campo così minato, e al contempo costitutivo della nostra realtà personale e sociale. Il lavoro, oggi, rappresenta la chiave di volta dell’intero edificio comunitario, assieme al denaro, naturalmente. Parliamo del lavoro come idea, proveniente dall’immaginario collettivo che, come tale, è percepito naturale, quando naturale non è in quanto esso è un costrutto umano, proprio come il denaro… anche se, poi, non ce ne ricordiamo mai.

Vogliamo porre l’attenzione, cioè, su un fenomeno che ci sembra veramente imponente – un vero e proprio tsunami – di cui, però, stranamente, quasi nessuno parla. La sparizione del lavoro1, come inteso oggi!
Qui non si tratta della robotizzazione, l’aspetto forse più superficiale e in fondo il meno impattante, nel senso che ha già dato i suoi abbondanti ‘frutti’, eliminando gran parte del lavoro fisico. Quanto piuttosto della digitalizzazione, o virtualizzazione, che dir si voglia, grazie o a causa – a seconda dei punti di vista – del crescente sviluppo delle tecnologie informatiche e delle reti comunicative. Una digitalizzazione pervasiva in accelerazione crescente. Che sta occupando sempre più spazi di vita quotidiana. Sempre più cose della nostra giornata, infatti, accadono e si svolgono nella virtualità della rete. Mediate da schermi, tastiere, smartphone, auricolari, interfacce vocali e così via. Un panorama che muta di release in release in accordo alla tempificazione, sempre più serrata, dei rilasci di software. Rilasci che realizzano questa ‘realtà’ e nella quale tutti noi, volenti o nolenti, siamo immersi. Unitamente all’esplosione dell’intelligenza meccanica2, questo fatto non può non comportare, dicevamo, che la scomparsa del lavoro, almeno com’è inteso oggi: retribuzione a fronte di prestazione di tempo-uomo. Affermazione esagerata? Proviamo ad approfondire.

Se la maggior parte della vita viene trasferita nella dimensione immateriale, come la definisce più correttamente Stefano Quintarelli3, e se l’intelligenza delle macchine, non solo quella robotica, diviene sempre più autonoma, risulta incontrovertibile che la maggior parte del lavoro svolto da quelli che un tempo erano chiamati colletti bianchi, per distinguerli dai colletti blu delle linee di montaggio, potrà essere svolto, molto più efficientemente, da sistemi automatici. Proprio grazie agli sviluppi dell’Artificial General Intelligence. L’intelligenza delle macchine, appunto. Un’intelligenza ‘deconsapevolizzata’, certo, come chiosa Y.N.Harari, ma pur sempre sostituiva dell’intelligenza dell’uomo. E questo è un fatto. Dobbiamo rendercene conto.

Tornando all’articolo di apertura, nella quale si sottolinea il fatto che le aziende più performanti sono oggi proprio quelle con pochi dipendenti umani, ne riassumiamo le conclusioni in queste battute:

[…] innovare significherà cambiare il lavoro, salvandolo, come sostengono i positivisti, e allora chi aspettiamo per iniziare questa metamorfosi?
[…] la tecnologia tende ad alleviare l’uomo dall’obbligo del lavoro. Come siamo contenti: a condizione di non essere anche «alleviati» dalla possibilità di guadagnare ciò che serve a vivere. Su questo «piccolo particolare» la parola deve prima o poi andare alla politica. Ma quella seria, non quella dei sussidi.

Noi non crediamo che si possa salvare alcunché del sistema attuale. Né tanto meno pensiamo sia un compito che spetti solo ai politici, quello di individuarne le soluzioni. Compito molto arduo, del resto. La parola chiave qui, invece, a nostro parere, è metamorfosi. Che indica un cambiamento di forma. Ecco che allora il concetto stesso di lavoro, dovrà essere completamente trasformato, dovrà diventare altro da ciò che è ora, assumendo una logica del tutto inedita. Così come il denaro. In una società completamente diversa da quella attuale, altra anch’essa.

Abbiamo una grande opportunità, quella di trasformare le idee che ci legano all’attualità del sistema corrente. Un’opportunità obbligata, certo. Sta a noi prendere il bivio giusto4. Il lavoro, quindi, non più come mezzo per sopravvivere nell’incessante competizione in cambio del proprio tempo di vita, ma mezzo per sviluppare il proprio talento. Definire, affinare e sviluppare la propria unicità, per donarla alla comunità in cui si è inseriti. Nel dare liberamente alla società le proprie abilità, affiniamo e sviluppiamo sempre più i nostri talenti. E questo sviluppo personale sarà tanto più prezioso per l’insieme, quanto sarà più espressione sincera della nostra unicità. Il lavoro cioè come mezzo di crescita personale e sociale, insieme. Realizzare la crescita di ognuno, infatti, in un ambiente cooperativo e sussidiario, implicherà realizzare al contempo la crescita della comunità stessa, nel suo complesso. Una comunità altra che, ovviamente, non ha niente a che vedere con quella attuale…

Un salto quantico davvero. Che prima o poi, però dovrà accadere. Necessariamente. Un vero e proprio cambiamento paradigmatico dell’idea stessa di persona e di società. Persone nuove in società nuove. Finalmente davvero umane.
Utopia? Sicuramente. Ma, o attiviamo un pensiero creativo radicale, umano, utopico, o non ne usciamo proprio. E non possiamo che avviarlo noi, dal basso, questo movimento. Ognuno per proprio conto e, al contempo, insieme. Interno ed esterno, insieme.

Non accadrà certo domattina. Ma questo processo, dobbiamo attivarlo e anche con grande convinzione e determinazione, il prima possibile…

 


Silvano Agosti, Il sipario del grande silenzio, Casaleggio Associati, ebook, 2013
2 Si veda a questo proposito Singularity o Singolarità tecnologica in wikipedia
3 ‘Dimensione immateriale’ la chiama, infatti, Stefano Quintarelli nel suo interessante e aggiornato ebook dal titolo: Costruire il domani. Istruzioni per un futuro immateriale. Antonio Tombolini Editore, 2016
Immagine che richiama la speciazione  di Igor Sibaldi o quella di ‘creodo’ di Conrad H. Waddington, Strumenti per pensare. Un approccio globale ai sistemi complessi, EST Mondadori, 1977, p.108

Crediti immagine: http://www.circololaprimapietra.eu/riunificare-il-mondo-del-lavoro-e-possibile/

 

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Le aziende più innovative? Quelle con meno dipendenti